giovedì 9 gennaio 2014

Sono solo. Completamente solo. (6)

IL DISERTORE

Il caos del lunedì mattina. Il filo dei miei pensieri fù interrotto dal rumore della città che si svegliava. Via Trento cominciava a riempirsi di gente, chi in macchina chi a piedi. È sempre così.
Trentamila abitanti che fanno il casino di un milione. Camminando senza meta, mi ritrovai all’altro capo della città. C’era un negozio di dischi da quelle parti e decisi di entrarci per ingannare il tempo e ripararmi dal caldo. Avevo comprato un vecchio giradischi tempo prima, ma non avevo mai avuto il tempo di acquistare un vinile.
Mentre cercavo fra gli scaffali qualche disco da comprare, sentii la musica alla radio interrompersi.
Il silenzio calò come un macigno nel negozio.

La radio riprese:
”Avviso! Comunicato ufficiale del presidio militare della città di Poggibonsi. Siamo alla ricerca di un disertore. Uomo bianco, altezza 1 e 87, corporatura media, capelli rossicci. Al momento della fuga aveva ancora indosso l’uniforme. Molto probabilmente è armato. Prestare massima attenzione. Il nome è Mauro Bellami. Chiunque lo riconosca, avvisi immediatamente il presidio militare. Grazie dell’attenzione.”
Mentre comunicavano i connotati, ebbi un sussulto. All’inizio pensai si trattasse di Stefano. Quando sentii il nome, tirai un sospiro di sollievo. Decisi comunque di chiamarlo per esserne sicuro.
Stranamente, mi rispose. Parlammo delle solite cose. Gli chiesi se aveva impegni per oggi e mi rispose di no. Aveva un paio di giorni liberi ed aveva tutta l’intenzione di goderseli. Siccome avevo anche io il giorno libero, decidemmo di incontrarci nel pomeriggio. Fissammo e ci salutammo.
Ripresi a girare per il negozio e finalmente trovai i vinili che cercavo. Presi quelli ed un altro paio di CD, pagai e uscii.
Ripensai per un momento a quel soldato, alle ragioni per le quali poteva aver disertato. Non riuscivo a trovare una spiegazione al suo gesto. Se avesse disertato in guerra, forse avrei potuto capire. Forse un crollo dei nervi, ma sembrava improbabile. Continuando a pensare a questo, e fumando una sigaretta dietro l’altra, mi incamminai verso casa.
Mi cucinai qualcosa di leggero mentre guardavo il tg.
L’epidemia stava lentamente passando in secondo piano. Fottuti telegiornali. Da quando il virus si era ristretto ai confini austro-tedeschi, non se ne parlava molto.
Pensavamo di averla scampata in un certo senso, o questo eravamo indotti a credere. Passai il tempo che mi rimaneva prima di incontrare Stefano a fumare e a pensare. Dovevo riordinare i miei pensieri in qualche modo, anche se era un impresa. Ero indeciso soprattutto su un fatto: dovevo informare o no Stefano del piano che avevamo concordato? Lo avevo chiamato per invitarlo alla riunione, ma quando vidi che non rispondeva, pensai che forse era stato un bene. Era mio amico, ma pur sempre in forza all’unità che aveva imposto la legge marziale alla mia città e mai in vita mia ero stato così vicino al dubitare delle nostre forze armate, le stesse che io ammiravo e di cui volevo disperatamente far parte. Alla fine mi decisi: glielo avrei detto e come và và.
Guardai l’orologio.
Era quasi ora.
Presi tutto ed uscii. Trovai Stefano già ad aspettarmi davanti al Politeama. Ci salutammo e cominciammo a camminare per il centro affollato da ragazzini che correvano da tutte le parti. Volli poi provare a chiedergli del disertore.
Non seppe dirmi molto, lo conosceva solo di vista. Mi disse che avevano avvisato anche lui poco prima che andasse in licenza. La confusione intorno a noi era tale da costringerci quasi ad urlare per capirci, quindi decidemmo di dirigerci verso un giardino pubblico, lontano dal centro. Una volta lontani dal casino, riprendemmo a parlare normalmente. Parlammo di cose in generale, della situazione attuale e dell’epidemia. Non mi ero dimenticato la storia che mi aveva raccontato su a Montemorli. Lo misi al corrente di quanto avevamo detto e deciso alla riunione dell’11. Mi guardò in silenzio per un attimo. Il suo sguardo mi fece rabbrividire. Pensai che si sarebbe incazzato o altro.
E invece no.
Mi disse che avevo fatto bene a preparare un piano d’insieme e mi disse anche che in quel caso molte cose avrebbe potuto procurarle lui. Ero perplesso. Non mi aspettavo una risposta del genere. Gli chiesi se non era rischioso per lui, come graduato dell’Esercito, esporsi così. Mi rispose che se davvero in Italia si fossero viste le stesse scene della Somalia, se ne sarebbe sbattuto le palle della divisa. Per un momento credetti di non aver più davanti lo Stefano che conoscevo, ma mi resi conto che anche lui aveva una famiglia, cosa molto più importante della divisa.
Gli esposi il piano nella sua interezza e mi consiglio di apportare qualche piccola modifica. Non potendo inserirlo in una squadra specifica, visto che poteva disporre del materiale militare che spaziava in tutti i settori (dalle armi ai viveri ed ai mezzi), gli dissi semplicemente che doveva rivolgersi a me. Il tempo era passato veloce ed era ormai sera.
Lo invitai a cena e lui accettò.
La serata passò relativamente tranquilla e verso mezzanotte rincasammo entrambi. Per tutta la settimana non capitò niente di particolare. Io continuavo ad andare a lavoro e a seguire i notiziari. La situazione variò nell’ultima settimana di luglio.
Decisi di avvertire Elena del piano preparato e dissi anche agli altri di fare lo stesso.
Alcuni l’avevano già fatto.
Meglio così.
La chiamai la mattina successiva e le esposi il tutto. La sentivo annuire al telefono, ma non sò se mi prese seriamente o se anche lei pensava che fossi pazzo. Le dissi anche di dirlo ai suoi, ma solo a loro.
Non doveva saperlo nessun altro.
Mi rispose che l’avrebbe fatto e mi salutò. Mentre chiudevo la telefonata,si fece largo in me la convinzione che forse era stato inutile. L’epidemia era ancora ferma e la situazione non sembrava smuoversi.
O così credevo.

Autore: Alessio Canosa

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