giovedì 12 dicembre 2013

Sono solo. Completamente solo. (5)

È AEROBICO

Nei giorni precedenti alla data in cui avevo fissato la riunione cercai, nel poco tempo libero che avevo, di organizzare tutto al meglio. Trovai un piccolo locale fuori città, abbastanza isolato. Più che una semplice riunione, sembrava un meeting fra capi di Stato, ma secondo me la cautela non era mai troppa. Facendola in un luogo in città o a casa di qualcuno di noi, non potevamo sapere chi avrebbe eventualmente potuto sentirci. Non so perché, ma il fatto che qualcuno oltre noi venisse a sapere, mi irritava. Forse ero troppo paranoico.
Il locale non era molto spazioso, ma per l’occasione andava bene. Il proprietario mi aveva anche fornito un tavolo e delle sedie. C’era un bagno, ma non so descrivervi le condizioni in cui era senza vomitare. Cercai di ripulirlo il meglio possibile, ma non mi sarei tolto quell’odore di dosso nemmeno se mi fossi lavato con l’acido. Le luci funzionavano sì e no.



Chiesi a mio fratello, che aveva studiato e trovato lavoro come elettricista, se poteva cercare di dargli una sistemata. Non mi promise nulla, ma mi disse che c’avrebbe provato. Nel frattempo che mio fratello lavorava all’impianto, decisi di andare a comprare qualcosa da mangiare e da bere per quel giorno. Andai di nuovo al centro commerciale, lo stesso dove avevamo passato quella maledetta giornata. Gli scaffali non erano fornitissimi, ma riuscii a comprare tutto quello che mi serviva. Trovai perfino degli alcolici. Quando mi avvicinai alla cassa, ebbi un piccolo sussulto: mi tornò in mente il furto compiuto a giugno, ma non sapevo se loro ne erano a conoscenza. Feci qualche domanda alla cassiera in proposito, mantenendomi sul vago. Mi disse che le forze dell’ordine erano riuscite a catturare qualche sciacallo, ma nulla di più. Dentro di me, tirai un sospiro di sollievo. Pagai tutto ed uscii. Andavo al locale almeno una volta al giorno se potevo, per dare gli ultimi ritocchi. Dopo quasi due settimane di lavori e ripuliture, non sembrava così male. In quei giorni avevo anche ricevuto le risposte dalla maggior parte di quelli che avevo chiamato. Mi dissero di essere disponibili. In tutto, eravamo circa una quindicina di persone, tra cui alcuni amici di mio fratello. Visto che non ero riuscito a rintracciarlo, mandai a Stefano un messaggio nella speranza che mi rispondesse qualche giorno prima della data fissata. Mi rispose che ci avrebbe pensato,  ma non mi fece risapere nulla. Ritenni prudente non far venire la mia fidanzata e quella di mio fratello, e chiesi ai miei amici di fare altrettanto con le loro. Se succede qualcosa almeno potranno dire di non sapere nulla, dissi a me stesso. Ero convinto che fosse la soluzione migliore. Tempo dopo mi pentii di averlo fatto.
Arrivò il giorno fissato. Prevedevo di rimanere a lungo lì, quindi feci scorta dell’occorrente per fami le sigarette.  A quel tempo fumavo molto, forse troppo, ma non riuscivo a smettere. Maledetto vizio. Se non mi uccide l’epidemia mi uccideranno queste, pensavo a volte. Tutto era pronto. Un paio di giorni prima avvisai gli altri che la riunione si sarebbe tenuta dopo cena, verso le ventuno, dando anche le indicazioni per trovare il posto. Mi riconfermarono la presenza. Ai miei genitori dissi che sarei rientrato tardi perché andavo da un mio amico. Cercai di rimanere molto vago per non preoccuparli. Quando arrivai alla casettina, Gabriele e Simone erano già lì. Non avevamo molte occasioni per vederci, e quando ci vedevamo era per poco. Non avevamo più sedici anni e le nostre vite erano cambiate. Ci salutammo calorosamente. Con Gabriele avevo un fortissimo legame. Ci conoscevamo dalla prima media e ci consideravamo quasi fratelli. Simone era un anno più grande di noi due, ma avevamo un buonissimo rapporto. Chiesi degli altri. Lorenzo era per strada, il Verro e Fierolocchio sarebbero arrivati a breve. Degli altri non sapevano nulla.

Piccolo appunto: il Verro e Fierolocchio sono “l’altro Lorenzo” e “l’altro Gabriele”. Chiamavamo Lorenzo “il Verro” perché, scherzando, lo paragonavamo ad un maiale selvatico. L’altro Gabriele veniva chiamato ironicamente Fierolocchio per via del fatto che era un po’ strabico. D’ora in poi li indicherò così per evitare confusioni.

Entrammo dentro la casettina e ci mettemmo seduti. Sapevo della passione di Gabriele per il Jack Daniel’s e di quella di Simone per il vino rosso e mi ero rifornito. Li invitai a servirsi mentre aspettavamo gli altri. Ci volle circa una mezz’ora perché fossimo tutti. Mio fratello arrivo insieme a Nico e Gianluca, due suoi amici. Poi arrivarono Marco, Andrea, il Verro, Fierolocchio, Berto e Roberto. Amedeo, Mattia,  Vaira e Lorenzo arrivarono ultimi. Vaira è il soprannome che avevo dato ad un ragazzo con il mio stesso nome, Alessio. Nutriva una profonda ammirazione per i bersaglieri, tanto da spingermi a soprannominarlo col nome del cappello piumato in uso al reparto.
Quando fummo tutti riuniti, mi decisi a prendere la parola. Feci un lungo discorso su quello che era successo e su quello che stava succedendo. Conclusi chiedendo un loro parere sul video che avevano trasmesso il mese scorso alla televisione e su cosa avremmo dovuto fare nel caso di fosse verificata una cosa del genere anche qui. Sembrava prematuro parlarne quando ancora non c’era pericolo immediato, ma mio padre mi ha sempre insegnato a prepararmi all’eventualità peggiore, in modo da essere già pronto. Gli altri mi guardarono per un momento. Forse pensavano che io scherzassi, che mi stessi dando delle arie. Forse mi avevano preso per pazzo. Ma io ero serissimo, come non lo ero mai stato. Il primo a prendere la parola per rispondere fù Simone. Riteneva che il video non fosse autentico, ma era comunque preoccupato. <<Se il video fosse vero e una cosa del genere accadesse qui? Cosa potremmo fare noi?>> disse. Il resto di noi annuiva in silenzio. <<Se tutto quello che dicono alla tv è vero, possiamo fare davvero poco.>> Aveva perfettamente ragione e lo sapevamo tutti. Da parte degli altri non ci furono opinioni molto diverse, si rifacevano sempre alle parole di Simone. La discussione durò comunque a lungo. I pareri erano concordi, ma i piani su come procedere no. Ognuno di noi pensava di avere la soluzione giusta, ma dopo un attento esame, capimmo che nessuna di quelle era attuabile. Si proponeva di rintanarsi semplicemente in casa, di andarsene dalla città cercando rifugio presso le strutture governative. Io proposi la creazione di un piano d’emergenza nel caso fossimo arrivati al punto della Somalia. Alcuni erano titubanti. Amedeo mi disse che, se fossimo arrivati veramente a quel punto, non avremmo potuto avere il tempo di eseguirlo alla perfezione, che qualcosa sarebbe andato storto e che ci saremmo ritrovati tutti nella merda. Ma concordava anche lui che fosse l’unica proposta sensata che fosse stata espressa. A tutti sembrava una misura eccessiva, ma il veloce succedersi degli eventi mi avrebbe dato ragione. Alla fine decidemmo di creare il piano. Ci dividemmo i compiti: io, mio fratello, Berto, Roberto, Nico e Gianluca ci saremo occupati di raccogliere i viveri. Simone, Gabriele, Vaira e Mattia avrebbero pensato alle armi. Mattia abitava vicino ad un’ armeria e questo mi spinse ad assegnarlo alla “squadra armamenti”. Marco, Andrea e Lorenzo si occupavano dei mezzi e della benzina. Verro e Fierolocchio dovevano raccogliere utensili e tutto quello che ci sarebbe potuto servire in seguito. Feci un discorso a parte per loro due. Siccome abitavano molto lontano da Poggibonsi, dissi loro che appena avessero raccolto tutto, dovevano venire subito da me. Avrei provveduto a sistemarli nei limiti del possibile.  Ad ognuno di noi venne distribuita una copia di quello che avevamo deciso e una lista delle cose da recuperare. Restava da fissare un punto di riunione da raggiungere dopo aver terminato i nostri incarichi. Decidemmo di fissarlo in cima alla strada che portava verso casa di Gabriele. Sembrava il posto più adatto. Lontano dall’imbocco della superstrada, lontano dal centro abitato. Ci saremmo ritrovati lì e poi avremmo deciso il da farsi. Finimmo di parlare che erano le 4 di notte passate. Dopo esserci salutati, ci dirigemmo ognuno verso casa sua. Sulla via del ritorno, chiesi a mio fratello cosa ne pensava.
<<L’idea del piano non è male. Farà sicuramente comodo. Ma come la mettiamo con mamma e papà? Dobbiamo dirglielo? Ed a Elena e Laura? Lo diciamo? O lo teniamo per noi fino all’ultimo?>>
Non seppi cosa rispondere. Il dubbio continuò a tormentarmi anche quando arrivai a casa, tanto che non riuscii nemmeno a prendere sonno.
Quando mia madre si alzò per andare a lavoro, mi trovò in cucina a fumare. Il posacenere era stracolmo. Avevo passato la notte in bianco a pensare se quella che avevamo preso alla riunione fosse una decisione giusta. L’avevo proposta, ma non ne ero convinto. Che controsenso. Amedeo aveva ragione: qualcosa sarebbe andato storto. Mi tornò in mente una frase: “nessun piano sopravvive al contatto con il nemico”. Ero confuso e adirato con me stesso. Perché mi era venuta quell’idea? Se, come continuavo a ripetermi, Amedeo aveva ragione, perché non l’ho ascoltato? Che cazzo mi ero messo in testa? Io non sono mai stato un leader, anche se tanti pensano il contrario. Non sarei capace di prendere decisioni per cui le persone a me care potrebbero morire, vivendo poi con il rimpianto di quella decisione sbagliata. Avevo proposto il piano, ma non ero pronto ad accettarne le responsabilità, non volevo sopportarne il peso.
Visto che ero stato tutta la notte sveglio e digiuno, decisi di mangiare qualcosa mentre guardavo la tv. Non c’era niente di niente. Le prime edizioni del telegiornale erano già finite. Decisi allora di andare a comprare un giornale. Tutta la prima pagina era dominata dall’epidemia. Guardai l’immagine allegata all’articolo. Era una scena di una serie tv che seguivo anni prima, The Walking Dead. Uno dei titoli era: “E se si stesse avverando?”. C’erano molti spezzoni di interviste rilasciate da professori e medici. L’unica cosa che riuscii a capire fu che non erano d’accordo nemmeno tra loro. Come diavolo faranno a creare un vaccino se non sono nemmeno concordi su cosa sia, pensai. Su alcuni punti però avevano rilasciato chiarimenti: la necrosi si manifestava nei pazienti colpiti a causa dei danni che il virus portava nei tessuti. Cominciava colpendo le vie respiratorie, ma non bloccava immediatamente l’apparato, ne riduceva lentamente le funzioni e questa era la causa delle convulsioni, dei dolori e della tosse. Dopo cominciava a espandersi verso gli altri organi, raggiungendo per primi il cervello e il cuore. Chi veniva colpito moriva generalmente nel giro di due o tre giorni, ma era una cosa che dipendeva molto dalle condizioni fisiche iniziali del soggetto. “Ci sono anche casi di persone colpite che però sono tutt’ora in vita” spiegava uno dei ricercatori.
Ma nessuna spiegazione del perché i morti riprendessero a vivere. Nemmeno le massime autorità in materia non sapevano fornire spiegazioni. Diedero anche conferma che il virus era aerobico ed era trasmissibile via aerea e non solo tramite contatto col sangue o la saliva di un paziente. Insomma, non c’era scampo. Eravamo tutti condannati a morte in attesa di giudizio. Un giudizio senza possibilità di appello.

Autore: Alessio Canosa

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