mercoledì 6 novembre 2013

Sono solo. Completamente solo. (1)

Da qualche parte nella campagna toscana, Lunedì 26 settembre 2023 (almeno penso), ore 04:32

L’ultimo proiettile. Forse sono riuscito a seminarli. Chiudo la porta alle mie spalle e cerco di rinforzarla con la prima cosa che mi capita. La ferità fa un male cane. Mi guardo intorno, nella speranza di trovare qualcosa di utile, magari munizioni o viveri. O sopravvissuti. Comincio a girovagare per la casa. Perquisisco accuratamente ogni stanza, guardandomi bene dal provocare eccessivi rumori. Non è facile, questa dannata casa scricchiola. Riesco a racimolare qualche pezzo di pane, della carne in scatola,  un pò d’acqua e una bottiglia di wisky. Non sono mai stato un gran bevitore, ma in mancanza d’altro devo accontentarmi. Perquisendo il bagno, trovo un pacco di bende e una bottiglietta quasi finita di alcol. Bene, almeno potrò disinfettare e fasciare la ferita. Controllo il resto. In una piccola stanza, molto probabilmente appartenuta ad un bambino, trovo un quaderno e delle matite. Niente armi o munizioni. Né sopravvissuti. Per gli Dei, come mi mancano le persone.



Mi chiamo Alessio Canosa, ho 29 anni, sono nato e cresciuto a Poggibonsi, un comune della provincia di Siena. Non so perché ho voluto cominciare a scrivere questa biografia. Forse mi rendo conto che ormai la mia fine è prossima e voglio che qualcuno sappia che sono esistito. Lasciarla come memoria ai posteri. Vorrei raccontare dall’inizio la mia storia. Ma non so nemmeno dire quando tutto questo schifo sia iniziato. È successo tutto così velocemente. Gli eventi sono precipitati in pochissimo tempo, ma se ho tenuto bene il conto dei giorni, questa cosa è cominciata più o meno due anni e mezzo fa.

Ricordo che era un giorno come un altro nella mia città. Io ero uscito per andare al bar vicino casa mia. Mentre cominciavo ad incamminarmi, vidi passare nella strada traversa alla via di casa una colonna di mezzi dell’Esercito. “Staranno tornando in caserma da qualche esercitazione. Forse vanno a prendere la superstrada per Siena” pensai. Incuriosito e affascinato (ho sempre voluto fare il militare, ma non ce l’ho fatta), mi avvicinai al bordo della strada per vederla passare. Con mia grande sorpresa, il veicolo di testa si fermò accanto a me. Il soldato alla guida, che a occhio e croce doveva avere la mia età, abbassò il finestrino e mi chiese indicazioni per il centro cittadino. Sempre più sorpreso, gliele fornii, ma lo avvertii che con questi grossi mezzi non potevano farcela a passare. Dal posto del passeggero, un ufficiale (con tutta probabilità il comandante della colonna), mi chiese se c’era una strada alternativa. Gli dissi di no e che conveniva che parcheggiassero i mezzi fuori dalla città e che vi si dirigessero a piedi. Mi ringraziò e disse al guidatore di rimettersi in marcia. Rimasi a veder passare la colonna e poi ripresi la mia strada. “Chissà forse c’è una parata o una manifestazione” continuai a pensare tra me e me. Che idiota. Se ci fosse stata avrebbero attaccato dei volantini per avvertire.
Ero talmente soprappensiero che non mi accorsi nemmeno d’essere già arrivato. Entrai, presi l’occorrente per farmi le sigarette ed uscii. Buttai distrattamente un occhio sul giornale su uno dei tavolini. Lessi il titolo in prima pagina:

“EPIDEMIA: È ALLARME ROSSO. Sale ancora il numero di contagiati”.

L’articolo era oggetto di discussione degli avventori del bar, ma non me ne curai più di tanto. Ne avevo sentito parlare già prima alla televisione, ma non si avevano notizie certe. Si sapeva solo che era partita da un piccolo villaggio in Somalia e che si stava diffondendo nel paese. Tornai verso casa. Quando arrivai, i miei e mio fratello Domenico erano a tavola, intenti a guardare il telegiornale regionale. Salutai, ma mio padre mi zittì subito. Mi sedetti e cominciai a guardare anche io il TG. C’era un avviso per gli abitanti della mia città. Si sarebbe tenuta una riunione presso il campo sportivo per discutere di argomenti importanti. Quali argomenti però non venne detto. Diceva solo che ci sarebbe stata alle ore 16 del giorno dopo. Il servizio si chiuse. Diventò l’argomento di discussione a tavola quel giorno che, secondo i conti che ho tenuto, doveva essere il 10 marzo 2021, un mercoledì. Ne discutemmo a lungo e animatamente. Ero indeciso se dire a tutti della colonna di mezzi che avevo visto passare. Decisi di no. Mia madre è decisamente troppo ansiosa. Lo tenni per me. Guardai l’orologio. Erano le 3 del pomeriggio passate da un pezzo quando finimmo di parlarne e io dovevo fare un sacco di cose.

Uscii di nuovo quel giorno. Avevo molte commissioni da sbrigare. Salii in macchina e misi in moto. Ripassai un attimo a mente quello che dovevo fare, poi partii. Arrivato all’uscita di Poggibonsi, una pattuglia dei Carabinieri mi presentò la paletta, invitandomi ad accostare. “Ecco, adesso è fatta. Che vogliono questi ora?” mi dissi mentre uno dei due si accostò alla portiera. Abbassai il finestrino.
<<Buongiorno. Patente e libretto, prego.>> disse. Consegnai i documenti che mi aveva chiesto e restai ad aspettare mentre effettuava i controlli. L’altro carabiniere intanto scrutava la strada. Notai che aveva il giubbotto antiproiettile e il mitra. <<Ci sono problemi?>> chiesi. Non mi rispose. L’altro tornò e mi riconsegnò i documenti.
<<Posso andare ora?>>
<<Deve tornare indietro. Nessuno può uscire dai limiti del comune.>>
<<Come sarebbe a dire? Io ho un sacco di cose da fare e…>>
<<Signore, torni indietro. Non mi costringa ad usare la forza.>>
L’altro carabiniere si avvicinò alla macchina con fare minaccioso. Quanto doveva sentirsi potente, con quel mitra in mano. Avrà avuto sì e no vent’anni.
<<Và bene. Me ne vado>> dissi. Girai la macchina e, facendo fischiare le gomme mi allontanai.
Tornai a casa incazzato come una bestia. Mi preparai una sigaretta. Nel frattempo, presi il telefonino per chiamare Alberto, un mio amico, e avvertirlo che non sarei potuto passare. Proprio in quel momento, il telefonino squillò. Era lui.
<<Pronto.>>
<<Ale, ma che fine hai fatto?>>
<<Sono a casa. I carabinieri mi hanno fermato al limite del comune. Mi hanno detto che nessuno può uscire.>>
<<Hanno detto la stessa cosa anche a Roberto.>>
<<Voglio sentire anche gli altri, se anche da loro è così. Ci sentiamo più tardi, ok?>>
<<Ok. A più tardi. Ciao.>>
Provai a pensare un attimo. Cosa può esserci di così grave da bloccare completamente gli abitanti di una città, al punto di non farli nemmeno più uscire dal proprio Comune? Non riuscivo a trovare una risposta convincente ma, anche più semplicemente, non riuscivo a trovare una logica. Provai a contattare via Facebook una mia vecchia compagna di classe delle superiori, che abitava in un comune vicino. Mi disse la stessa cosa. Anche da lei tutto bloccato. Dissi ai miei genitori quello che mi era capitato. Mio fratello ascoltava attentamente. <<Che cazzo gli prende a questi? Pensano di poter fare il bello e il cattivo tempo come pare a loro?>> disse mio padre quando ebbi finito. A cena, io e la mia famiglia, continuammo a parlare dell’argomento, poi accendemmo la tv per vedere il TG della sera. C’erano sviluppi della situazione. Al TG riferirono che in Somalia, dov’era apparsa quest’epidemia, la gente cominciava a morire. I medici non riuscivano a capire come mai. Nessuno ne sapeva niente. Elencarono i sintomi: chi veniva colpito cominciava a diventare improvvisamente debole, tossiva e, nei casi peggiori, era in preda a convulsioni atroci. Tutto lasciava presupporre un nuovo ceppo influenzale, ma nulla di più. Ma la cosa strana erano queste morti: ovviamente quasi tutti sanno che in Africa, soprattutto in zone rurali e povere, anche l’influenza uccide. Ma lo stato dei cadaveri lasciava stupefatti. A quanto pare quest’epidemia causava anche la necrosi dei tessuti. Ma non pensavo si manifestasse in così breve tempo. Allucinante. Provai ad informarmi di più usando internet. Guardai maree di siti ma non riuscii a trovare niente di quello che cercavo. Preso dallo sconforto andai a dormire.

Autore: Alessio Canosa

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